D. All'interno di questo libro viene presentata una modalità di confronto tra le parti che interagiscono all'interno della realtà aziendale che vuole cercare di consentire la migliore gestione possibile delle dinamiche relazionali e quindi la maggiore produttività del complesso nel suo insieme. Da dove è nata questa esigenza così significativa e importante?
R. Dal crescente malcontento che investe il mondo del lavoro dovuto sia al prolungamento dell’attività lavorativa sia alla necessità di doversi a volte «accontentare» di un impiego che non rispecchia le proprie aspettative, e dal bisogno di trovare soluzioni a conseguenti situazioni che generano stress e finiscono coll’interferire con diversi aspetti relazionali.
Acquisire la consapevolezza che non sempre le situazioni sono «immutabili» credo sia una modalità utile ad assumersi la responsabilità di agire un cambiamento partendo da una chiara ed esaustiva conoscenza delle proprie dinamiche personali e di come queste possano diventare un peso, impedendo un equilibrato rapporto con la sfera lavorativa.
D. Come affermano gli esperti "non si può non comunicare", perché la comunicazione ha questo enorme potere nel consentire di migliorare anche la salute fisica e psichica dei lavoratori?
R. Perché abbiamo bisogno di essere ascoltati, compresi, capiti e perché quando le informazioni non ci sono chiare tendiamo a colmare i vuoti con interpretazioni e deduzioni spesso irrealistiche. La sensazione inoltre di non avere nulla di importante da dire, da condividere perché l’altro non ascolta, non ribatte al contenuto della nostra comunicazione, crea un isolamento emotivo e potenzia la sensazione di non essere degni di «essere visti». Questo ovviamente a discapito dell’autostima e delle enormi potenzialità che non trovano modo di esprimersi. La somatizzazione, l’ansia, i disturbi dell’umore possono essere la conseguenza di un discorso mai veramente intrapreso («non riesco a chiedere un aumento di stipendio») o la difficoltà di comunicare un proprio stato d’animo («non riesco a dirti che la tua critica è ingiusta»)
D. Quali sono le tecniche che proponi e che servono a migliorare le comunicazioni fra persone e fra gruppi?
R. La prima cosa che occorre è avere la voglia di comunicare, il che richiede già una profonda capacità di non temere o sottostimare l’interlocutore e di mettersi al suo livello senza giudizi e preconcetti. È altrettanto importante guardarsi negli occhi, mantenere una distanza fisica consona alla situazione. Non interrompere, ma avere la pazienza di ascoltare fino in fondo anche se il contenuto della comunicazione è noioso. Usare un linguaggio comprensibile all’altro e, nel caso non si comprenda cosa viene detto, chiedere di ripetere in modo che il contenuto della comunicazione non sia né frainteso, né interpretato. Riconoscere e tenere sempre presente la comunicazione non verbale. Gli uomini possono mentire, il corpo, difficilmente riesce a farlo.
D. La voglia di far conoscere i casi che presenti nel libro, quanto hanno influito sul tuo desiderio di scriverlo?
R. In realtà pochissimo, anzi nella prima stesura del libro non erano presenti. A un certo però, in fase di rilettura mi sono detta che riportare esempi pratici per meglio illustrare le teorie di riferimento, sarebbe stato utile al lettore per concretizzare ciò che fino a quel momento era stato meramente teorico.
D. All'interno delle aziende spesso il disagio si manifesta di conseguenza a comportamenti malati e vessatori, il tuo libro è in grado di suggerire soluzioni che affrontino problemi quali il mobbing, le molestie, il disagio emotivo relazionale?
R. Idealmente sarebbe importante che le aziende investissero sulla prevenzione, istituendo sportelli d’ascolto, gruppi di crescita personale, laboratori o corsi sulla comunicazione in modo da annullare la criticità alla base dello stress lavoro correlato. Questo non significa che la presenza di spazi di confronto e ascolto possano miracolosamente annullare tutte le problematiche del mondo del lavoro, ma sarebbero un valido supporto. In assenza di tali opportunità leggere cosa condiziona la percezione di malessere e di insoddisfazione avvertiti quando si è nella dimensione lavorativa, aiuta a trovare soluzioni. Il lavoratore va motivato. La motivazione fa tendere verso la realizzazione dell’obiettivo e questo si concretizza con aumento dell’interesse nel lavoro. Un lavoratore che non vive bene l’ambiente in cui si muove, che non si sente parte di qualcosa, che non ha la convinzione di essere apprezzato anche per ciò che è oltre che per ciò che fa, raramente sarà sereno e produttivo.
D. Infine una domanda di tipo pratico. Applicare quello che dici nel libro aiuta le aziende e i lavoratori, secondo quanto affermi, a migliorare le relazioni e quindi le funzionalità dei singoli e dei gruppi. Questo si traduce, secondo te, in minori assenze per malattia e maggiore produttività?
R. Senza dubbio! Sappiamo che la prestazione lavorativa è data dal prodotto tra capacità e motivazione. Se la prima compete solo parzialmente al datore di lavoro, la seconda direi che rientra a pieno titolo nei suoi doveri. Nel momento in cui una o entrambe non sono tenute in considerazione, il rischio è di non avere alcun desiderio di migliorare e migliorarsi, di considerarsi «inutile» o peggio ancora «non apprezzati». Chi, potendo, trascorrerebbe il suo tempo in un luogo simile? Se a questo si aggiunge che spesso i conflitti che fanno normalmente parte delle relazioni vengono ignorati e non usati come risorsa per incentivare la soluzione e individuare comportamenti alternativi, la voglia di lavorare si annulla. Nasce la tensione e lo stress trova il modo di comunicare un malessere che si ripercuote sulla prestazione lavorativa.
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