Nel testo cerca di svelare i giochi familiari tipici delle famiglie abusanti e incestuose e di ricostruire e capire le dinamiche interattive che caratterizzano tali famiglie “patologiche”, soffermandosi prima però sui fattori predisponenti l’abuso sessuale, l’incesto o il maltrattamento all’interno del nucleo familiare.
Nella intervista che segue ci presenta il suo volume da poco in libreria.
Il problema dell’abuso sessuale sui minori sembra essere emerso solo negli ultimi anni, diventando ormai un argomento di grande attualità, ma in realtà varie forme di abuso sessuale si sono verificate in tutti i periodi della storia dell’umanità.
Risulta ancora oggi molto difficile e complesso dare una definizione univoca e condivisa di abuso sessuale sui minori, poiché si tratta di un argomento delicato e complesso, che i vari operatori affrontano ognuno con una specifica identità professionale.
Un libro sul sentire umano ma dagli spunti pratici su come poter insegnare nell'autismo, come poter approcciarsi al bambino, indipendentemente dall'attività o dal contesto contingente, solo riflettendo sul suo peculiare modo di leggere il mondo, gli altri, se stesso, nel silenzio.
Antonio Rinaldi, psicologo clinico e fondatore del metodo A.T.D.R.A., portatore di una nuova visione dell'autismo, partirà dal libro per raccontare la filosofia con la quale da anni conduce il lavoro con le famiglie.
Dopo i saluti della Presidente dell’Ordine Psicologi Campania Antonella Bozzaotra, l'introduzione è stata curata dalla Vicepresidente dell’Ordine Psicologi Campania Lucia Sarno. Hanno discusso con l’autrice, Paolo Gritti, Psichiatra, Psicoterapeuta e Professore di Psichiatria presso la Seconda Università degli Studi di Napoli, Marisa Iavarone, Professore Associato in Pedagogia generale e Responsabile scientifico dello “Sportello di Sostegno alla Genitorialità competente” presso l’Università Parthenope di Napoli, Enzo Sarnelli, Psicologo e Psicoterapeuta, Socio fondatore dell’Associazione Oltre Onlus di Ischia, e Maria Scala, Psicologa e Psicoterapeuta sistemico-relazionale presso il Centro di Psicologia Clinica Territoriale Essebi di San Giorgio a Cremano.
Il lavoro affonda le radici su una salda impostazione teorica - richiamata peraltro nel testo - che parte dallo studio dell’attuale organizzazione scolastica per comprenderne il mandato sociale nella società complessa e giungere alla definizione di qualità e caratteristiche dell’intervento psicologico più utile nei contesti scolastici.
Il lavoro, naturalmente, non prescinde da una precisa e ampia analisi della domanda dei committenti (alunni, genitori, insegnanti, operatori sociali e chiunque abbia bisogno di un supporto di questo tipo).
La presentazione è stata un momento di riflessione e di crescita e un riconoscimento per il il lungo e faticoso lavoro svolto da Annamaria Improta, come si evince dalle interventi dei relatori che parzialmente pubblichiamo:
"Il libro evidenzia la necessità di valorizzare le diversità come “valore aggiunto” ed offre l’opportunità - ha sottolineato Maria Scala, psicoterapeuta presso Centro di psicologia clinica “essebi” - di ripensare alle proprie esperienze e le proprie azioni ricostruendone il senso ed indicando le possibili prospettive di sviluppo".
“Il volume si offre quale valido strumento interpretativo della relazione educativa e di cura nei contesti formali, non formali ed informali, rinforzando la trama dell’alleanza formativa tra scuola, extra scuola e famiglia. La lettura, oltre all'ambito delle professioni psicologiche e di cura” - ha aggiunto la docente di Pedagogia della relazione all’Università Parthenope Maria Luisa Iavarone - “è utilmente diretto a insegnanti, educatori, genitori e a chi a vario titolo è impegnato nei processi formativi e di sviluppo”.
Alla base il “modello” dell’esplorazione dei propri ricordi e la conoscenza di sé, per arrivare all’incontro con l’altro e all’accettazione delle differenze. Al testo, inoltre, sono allegate numerose schede operative, immediatamente utilizzabili, che forniscono al lettore strumenti operativi di rapida applicazione.
“Il libro di Annamaria Improta è sicuramente un "buon service" per la scuola e per tutti gli attori coinvolti nei processi di formazione e apprendimento nella relazione io-tu-noi nel qui ed ora della realtà analogica” ha aggiunto Enzo Sarnelli, psicoterapeuta e mediatore familiare.
Al centro del lavoro, dunque, il metodo narrativo-autobiografico, la necessità del racconto autobiografico. Il libro, quindi, ha una doppia “anima”: una psicologica, l’altra pedagogica.
"Il punto è oggi nella riorganizzazione dei percorsi didattico-educativi: non più obiettivi comuni per tutti ma obiettivi differenziati per i diversi studenti, in grado di valorizzare le differenze” ha sottolineato Paolo Gritti, psichiatra, psicoterapeuta e docente di Psichiatria presso la Seconda Università degli Studi di Napoli, che ha aggiunto “come dal punto di vista della teoria dei sistemi complessi, una buona funzione pedagogica dovrebbe affrancarsi da esiti ordinati o al contrario caotici, per porsi in equilibrio dinamico, affine alla configurazione “sull’orlo del caos”: è questa la nuova mission della scuola, intesa come sistema complesso in continua evoluzione”.
Il libro nasce con l’intento di suggerire vie e modalità per la risoluzione dei conflitti. L’autrice propone metodi operativi concreti, basati sulla conoscenza di sé per arrivare alla conoscenza e all’accettazione della diversità dell’altro.
Per conoscere meglio l'argomento trattato nel volume abbiamo intervistato l'autrice, che ha risposto alle nostre domande con molta chiarezza nell'intento di avvicinare il lettore a questo interessantissimo testo.
D. Ringraziamo la Dott.ssa Improta per la sua disponibilità, le chiediamo: Qual è lo scopo del suo libro?
R. L’idea era quella di individuare una “strategia operativa” per la risoluzione dei conflitti. Il libro nasce infatti da un lavoro, da un’esplorazione sul campo: al centro i conflitti e la loro possibile soluzione nel mondo degli adolescenti. Naturalmente, trattandosi di una modalità operativa, di un modello, per così dire, può essere adattato a qualsiasi contesto educativo e/o comunitario, quindi a persone di età diversa, visto che parte da un vissuto del quale tutti hanno esperienza: l’esplorazione dei propri ricordi e la conoscenza di sé … Per arrivare all’incontro con l’altro e all’accettazione delle differenze.
Il libro, quindi, ha una doppia “anima”: una psicologica, l’altra pedagogica.
D. Ci spieghi
R. Ho cercato di fornire un approfondimento teorico sul mondo della scuola e sull’attuale organizzazione scolastica, a partire da un punto di vista privilegiato: sono una docente, infatti. Obiettivo: comprendere e interpretare il mandato sociale della formazione scolastica nella società complessa, per giungere alla definizione del più utile intervento psicologico nei contesti scolastici, definendone ‘qualità’ e caratteristiche calzanti. In questa prospettiva ho cercato di collegare l’utilizzo dei metodi narrativi - in un’ottica costruttivistica dell’intervento - alla più generale teoria dell’intervento psicologico nei sistemi complessi. La teoria della prassi che mi è sembrata più utile - e che dunque ha guidato il mio fare operativo - è l’analisi della domanda, che mi ha consentito di costruire un intervento non aderendo alla “richiesta” di riportare alla “norma” un sistema disfunzionale, bensì attraverso la decodifica delle dinamiche emozionali che sono ‘dietro’, alla base della richiesta. Ho cercato quindi di “costruire” il cambiamento insieme agli insegnanti coinvolti e agli studenti, che sono diventati così parte del processo di cambiamento e non solo “oggetto” dell’intervento. Tale strategia operativa mi ha dato occasione di coniugare la teoria alla prassi, operando compiutamente anche attraverso il metodo ‘autobiografico’.
D. A quale pubblico si rivolge il suo lavoro?
R. Come ho detto prima, nel libro propongo una strategia di intervento per la risoluzione dei conflitti, tanto frequenti in età adolescenziale ma, proprio perché parte dal sé del soggetto-protagonista per arrivare all’incontro con l’altro, tale modalità rappresenta quasi un passepartout nei sistemi e nei contesti comunitari più diversi. In questa prospettiva il libro è rivolto (e/o può essere utile) a tutti coloro che hanno a che fare con la delicata dimensione educativa e trasformativa, nella quale è coinvolta la relazione. Mi riferisco a Psicologi, Insegnanti, Pedagogisti, Educatori, Animatori Sociali, Mediatori, Operatori di cooperative educative e sociali, tutti possono trovare nel volume una lettura dei fenomeni scolastici e un’impostazione programmatica per realizzare un intervento psicologico di matrice costruttivistica. Al testo, infatti, sono allegate numerose schede operative, immediatamente utilizzabili, che forniscono al lettore strumenti operativi di rapida applicazione; le schede – di fatto – sostanziano un ‘modello’ per elaborare strumenti ‘ad hoc’ per il contesto in cui ci si trova a lavorare. A garantire la replicabilità dell'intervento psicologico proposto è la flessibilità: esso cambia perché cambiano gli utenti e con loro e per loro di volta in volta si costruisce un intervento che non è mai dato. In qualsiasi caso, un intervento basato sulle metodologie analizzate e proposte non può mai essere, infatti, un intervento "calato dall'alto", ma si sviluppa step by step attraverso una ricerca – azione che parte da un'esperienza già realizzata e ‘rodata’. Tale impostazione conferisce al volume il pregio di presentare gli elementi caratterizzanti di una buona prassi e ne garantisce la riproducibilità in contesti diversi, permettendo al lettore/consulente di realizzare interventi di integrazione “di qualità”. Il valore aggiunto del volume, insomma, è che offre al lettore, per la ricerca che ne è alla base, per la reale applicabilità e per lo scenario ampio che fotografa, una sorta di ‘cassetta degli attrezzi’ per un preciso intervento, in tutte le sue fasi, e una possibile verifica dei risultati. In questo senso, può quindi essere utile anche a studenti e/o a professionisti in formazione che possono verificare come coniugare teoria e prassi.
D. La raggiunta autonomia della scuola ha davvero rappresentato un cambiamento positivo? O è possibile individuare anche aspetti negativi?
R. Io vedo la scuola come un’organizzazione di servizi in cui tutti gli attori perseguono obiettivi comuni. In questa prospettiva l’autonomia scolastica rappresenta una sfida: può essere una grande occasione, se riesce a garantire una nuova, effettiva partecipazione alle scelte da parte degli studenti, che sono posti al centro del sistema, come detentori del diritto a una prestazione didattica aggiornata e attenta ai loro bisogni formativi. Se questa è la premessa, fa da contraltare un sistema formativo spesso elefantiaco, che si perde dietro adempimenti burocratici che rischiano di far perdere di vista il protagonista dell’intervento stesso: lo studente! Il paradosso è che nel sistema formativo italiano l’ancoraggio alla tradizione pedagogica, che dovrebbe fornire la griglia di lettura per analizzare le nuove emergenze educative, spesso diventa una gabbia, specchio di una società obsoleta, per cui la scuola, che dovrebbe preparare le future generazioni, talvolta legge i cambiamenti sociali come fattori di destabilizzazione. Gli eventuali aspetti negativi dell’autonomia scolastica possono manifestarsi pertanto quando la scuola non ne coglie appieno le opportunità, irrigidendosi e/o proponendo un curricolo formativo depotenziato, semplificato che, lungi dal motivare gli studenti, li allontana ulteriormente. La sfida sta quindi nel proporre un modello educativo solido attraverso metodologie motivanti e aggiornate.
D. Si è anche ridefinita la missione pedagogica della scuola?
R. Con il mutare del contesto sociale la missione pedagogica della scuola va necessariamente adeguata alle nuove emergenze formative. Non si tratta però di inseguire mode e modelli che poco hanno a che fare con l’educazione, con l’alibi di garantire il diritto allo studio per tutti, quanto di permettere a ciascuno di sviluppare le proprie capacità e potenzialità personali, in un’ottica inclusiva.
D. Quindi?
R. Il punto è oggi nella riorganizzazione dei percorsi didattico-educativi, mi spiego meglio: non più obiettivi comuni per tutti ma obiettivi differenziati per i diversi studenti, in grado di valorizzare le differenze. Questo nodale passaggio è evidenziato nella prefazione del libro: il prof. Gritti sottolinea come dal punto di vista della teoria dei sistemi complessi, una buona funzione pedagogica dovrebbe affrancarsi da esiti ordinati o al contrario caotici, per porsi in equilibrio dinamico, affine alla configurazione “sull’orlo del caos”: è questa la nuova mission della scuola, intesa come sistema complesso in continua evoluzione.
D. Ci spiega il significato di simbolizzazione affettiva e categorizzazione?
R. Simbolizzazione affettiva e categorizzazione sono due modalità per leggere il contesto. La simbolizzazione affettiva, inconscia, e quindi inconsapevole, è una lettura del contesto attraverso le emozioni, la categorizzazione, invece, legge la realtà attraverso la razionalità, la produttività. Il senso comune considera le emozioni dimensioni residuali, in aggiunta al pensiero razionale, per cui considera il comportamento ad appannaggio del pensiero e della razionalità. Le simbolizzazioni affettive condivise entro il contesto vengono definite in letteratura collusione sulla quale si fondano le rappresentazioni che hanno della scuola gli alunni, le famiglie, i docenti, ma anche quelle di tutti quegli interlocutori “meno diretti” che con la Scuola hanno comunque a che fare: dai cittadini alle aziende sanitarie, ai servizi del Comune, etc. Sulla collusione è quindi organizzata quella che definiamo cultura locale, in riferimento a tali emozioni condivise, che orientano la relazione e portano il soggetto ad agire inconsapevolmente in un determinato modo.
Secondo l’approccio proposto nel mio lavoro, tuttavia, le emozioni non rappresentano perciò una dimensione residuale bensì sono fondanti la relazione insieme alla categorizzazione. Tale concezione impone una revisione nella lettura dell’organizzazione che non può essere un processo esclusivamente basato sulla razionalità. Simbolizzazione affettiva e categorizzazione sono, dunque, due modalità inscindibili di costruzione della realtà: emozione e razionalità rappresentano due facce di una stessa medaglia.
D. E ci può dire di più sul ruolo dell’intervento psicologico in ambito scolastico e sul ruolo della relazione?
R. Se, come dicevamo, la relazione si fonda sulla simbolizzazione affettiva e sulla categorizzazione, le emozioni sono contemplate in qualsiasi intervento che voglia porsi come trasformativo. Nella prassi più generale, quando ci si rivolge ad uno psicologo a scuola le motivazioni che sottendono la richiesta sono per lo più di natura reattiva: il prototipo è la richiesta di intervento sul caso individuale per cui la scuola chiede allo psicologo di occuparsi del bambino o del ragazzo “problematico”, sulla base del presupposto che tale “problematicità” vada ascritta a variabili “psicologiche”, separate rispetto a quelle proprie del setting insegnamento-apprendimento. In questo quadro l’intervento richiesto allo psicologo è un intervento di tipo “ortopedico”, il cui obiettivo è riportare ad hortos, cioè alla normalità, un comportamento giudicato inadeguato. Tale tipo di richiesta tende a bypassare l’emozionalità di cui è intriso il contesto, per fondarsi esclusivamente sul presupposto della razionalità, giacché l’emozione è vissuta come deviazione dalla norma. Lo psicologo, secondo il modello proposto nel volume, evitando di rimanere intrappolato nella logica collusiva di aderire ad una richiesta che bypassa l’emozionalità, deve analizzare la domanda, ponendosi come consulente all’interno di un processo in cui promuove/sostiene/contribuisce ad aiutare il cliente (docente e/o studente) ad uscire dalla condizione di crisi di decisionalità, che si è innescata quando gli schemi di funzionamento fino ad allora funzionanti sono falliti. Anche perché, quando ci si rivolge ad uno psicologo è perché uno studente ha messo in crisi un sistema altrimenti funzionante; tuttavia va considerato che se la scuola non si organizza, il rischio è che lo studente esca dal circuito educativo senza riuscire a utilizzare questa risorsa per il suo sviluppo. Spesso, infatti, la scuola ha difficoltà ad effettuare una presa in carico adeguata, per cui si genera una dinamica circolare per cui l’ambiente, anziché sviluppare risorse, si costituisce quale specchio rifrangente delle difficoltà dell’alunno.
D. Ed ora, se è d’accordo, ci spieghi i concetti di assimilazione e accomodamento.
R. Se abbiamo detto che l’intervento psicologico viene richiesto nei casi in cui l’attore (insegnante, genitore, studente, etc…) si trova in una situazione di crisi di decisionalità, l’intervento dello psicologo dovrà essere volto a promuovere la sua capacità decisionale attraverso una nuova lettura del contesto, partendo dai presupposti che orientano la sua azione. Di fronte ad una situazione in cui l’attore si trova in crisi di decisionalità, egli potrà interpretare tale contesto in modi differenti, rientranti tutti nei modelli generali di “assimilazione” ed “accomodamento”. La funzione di assimilazione è adeguata a sostenere l’invarianza, la prevedibilità e la riproduzione organizzativa. La funzione di accomodamento, invece, è quella per cui un’organizzazione è in grado di trattare la variabilità ambientale ed adeguarsi a essa.
In altri termini, se il modello adottato è uno, allora la strategia d’uscita dalla crisi di decisionalità sarà l’assimilazione; se il modello è l’altro, la strategia sarà l’accomodamento.
Il modello fondato sull’assimilazione postula che il modello organizzativo che guida l’attore sia in sé adeguato. Da qui la ricerca di strumenti (informazioni, norme, strumenti operativi, tecniche...) che permettano di portare sotto controllo le fonti esterne di crisi. In definitiva, questo approccio non ritiene necessario procedere ad una revisione del modello organizzativo; per certi versi, al contrario, protende per un suo consolidamento e una sua eventuale espansione attraverso l’acquisizione di nuovi strumenti che permettano l’applicazione ai nuovi eventi ambientali (le fonti esterne di crisi).
Nel modello fondato sull’accomodamento per il soggetto la crisi di decisionalità è la conseguenza dell’inadeguatezza del modello organizzativo utilizzato. Quando la crisi è interpretata nei termini del secondo modello, la soluzione è evidentemente ricercata nella revisione del modello organizzativo proprio dell’attore, piuttosto che nella ricerca di nuovi strumenti.
D. Dottoressa, ci può dettagliare, ovviamente in breve, il metodo narrativo-autobiografico, la necessità del racconto autobiografico e i contesti applicativi del metodo autobiografico?
R. La tesi alla base del mio lavoro va proprio in questa direzione, attraverso il coinvolgimento degli studenti in relazione a ciò che conoscono di più: la propria storia personale. La narrazione di sé è data dal bisogno di farsi sentire, di essere accettati e capiti. L’approccio autobiografico in educazione si fonda sulla possibilità di autoformarsi, attraverso un lavoro interiore legato alla rivisitazione e alla narrazione delle proprie esperienze remote, recenti e attuali. La formazione di sé deriva dall’acquisizione di una maggiore consapevolezza (di sé, degli altri, del mondo) e dalla possibilità di prospettare opportunità di scelte di cambiamento per la propria vita, alla luce di una nuova visione e di una diversa disposizione d’animo. Sin dai primi anni di vita l’individuo tende a raccontare quello che gli accade, cercando di riportarlo a ciò che è già noto, che è culturalmente condiviso. In questo modo, la narrazione diventa lo strumento di costruzione e conoscenza del mondo e nel contempo del proprio sé. Esiste quindi uno stretto legame tra il pensiero narrativo e lo sviluppo dell’identità, in quanto la narrazione si pone come strumento di mediazione tra il sé e la realtà esterna.
D. Ci faccia capire meglio.
R. Ogni narrazione non è solo “storia personale”, percorso puramente interiore, ma “storia di interazioni”. Ogni soggetto, nel momento in cui racconta la propria storia personale, conferisce significato alle sue azioni, modificando e ricostruendo la propria identità operando, contemporaneamente, una ‘co-costruzione’ della realtà circostante. Questo processo di co-costruzione di significati è la base di ciò che chiamiamo cultura. In questa prospettiva, l’aula diventa quindi il luogo in cui si realizza un intreccio di linguaggi, e diventa l’occasione, il luogo in cui rappresentare e affrontare quella frammentazione, quella divisione dei saperi spesso incomprensibile per gli alunni. L’approccio autobiografico, inoltre, connette la dimensione cognitiva-razionale con quella emotivo-affettiva: dedicare del tempo, infatti, ri-pensarsi e narrarsi è anche un modo per prendersi cura di sé. Né va dimenticata la componente di impegno legata al processo di crescita, in cui la memoria personale porta ad una rinnovata autoprogettualità.
In questa prospettiva, passato presente e futuro acquisiscono nuovi significati in relazione ad una maggiore consapevolezza. Nel narrarsi esistono, dunque, i fattori mutativi di ogni psicoterapia: la trasformazione del comprendere, del sentire attraverso l’interpretazione dell’esperienza emozionale.
Proprio per la trasversalità dell’oggetto della narrazione, la propria storia, l’approccio autobiografico ha un’ampia applicabilità nei contesti più disparati: aziendali e professionali; socio educativi e orientativi; territoriali e locali; scolastici e universitari. Inoltre, anche le età dei destinatari può essere varia, un po’ come quando sui giochi di società c’è l’indicazione “da 3 a 99 anni”. Proprio per questo i destinatari della formazione autobiografica possono essere sia gli operatori educativi (formatori, educatori, animatori, orientatori, insegnanti, psicologi) sia gli utenti finali dell’azione educativa (manager, stranieri, anziani, disabili e alunni).
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Antonio Rinaldi ci vuole presentare un mondo tanto discusso, ma altrettanto sconosciuto, il quale, secondo l’autore, è ancora oggetto di pregiudizi e fraintendimenti: l’autismo. Innanzitutto, egli dedica la prima parte del suo libro alla spiegazione “scientifico-nosologica” di questo disturbo, inquadrandolo come, per definizione classica, un disturbo pervasivo dello sviluppo, di cui analizza, paragrafo dopo paragrafo, le sue manifestazioni comportamentali e comunicazionali.
Il filo comune di tutto ciò che è autismo è, dice Rinaldi, la sua apparente “a-normalità”, “ipo-logicità” ed “ipo-sensibilità”, per lo meno da quanto emerge dai movimenti stereotipati, dal blocco emotivo e comunicazionale e dalle conseguenti difficoltà di inserimento nel mondo. È qui che l’autore allarga l’inquadratura, spostandosi dal primo piano sul bambino “problematico”, fino ad inquadrare tutto il suo contesto d’appartenenza. È così che ci spiega che, probabilmente, si potrebbe capire meglio il bambino autistico se, invece di guardare solo quello che non fa o non dice, si cercasse di capire quello che il mondo esterno fa o dice e la risonanza che tutto ciò ha al suo interno. Rinaldi spiega, infatti, che l’autismo comporta, al contrario di quanto si possa pensare, una condizione interna di “iper-logicità” e di “iper-sensibilità” a tutti gli stimoli che gli vengono presentati, per cui dovrebbero essere proprio coloro che si relazionano con lui a calibrare il modo di rapportarsi a lui, di modo che egli non sia sopraffatto da idee, dialoghi, eventi ed emozioni.
Allora l’autore comincia ad analizzare le caratteristiche dell’ambiente familiare del bambino, primo contesto relazionale, e, in particolare, quelle con il genitore, che vive il problema nella quotidianità. Rinaldi delinea, così, alcuni accorgimenti per loro, tra i quali spicca il trait-d’union tra la famiglia ed i professionisti che si occuperanno del bambino, nonché l’importanza di un giusto supporto ed inserimento del bambino nella sua scuola, di modo da poterne favorire l’accettazione e l’integrazione con i suoi compagni. Modellando il mondo esterno a quello interno, si potrà favorire un reciproco adattamento dei due, di modo che il bambino possa aprirsi, gradualmente, ad un vivere che non è più troppo “aggressivo” nei suoi confronti, ma idoneo al suo modo di essere e di fare.
Infine, Rinaldi fornisce un esempio concreto di come si possa lavorare con un bambino autistico, il metodo che egli stesso ha adottato e continua ad adottare: il trattamento in acqua. L’autore descrive, così, il percorso in piscina e quello in mare (il surfing), delineandone anche punti di forza e debolezza, con qualche piccolo esempio di pazienti, da egli stesso curati, che hanno avuto i loro piccoli miglioramenti.
Nelle conclusioni, Antonio Rinaldi riprende tutto il discorso, ribadendo l’importanza della plasticità del mondo esterno al bambino per aiutarlo ad avvicinarsi piano piano ad esso. È leggendo il silenzio di questi bambini che si può realmente entrare nel loro mondo e lasciarvi entrare un po’ del mondo esterno e di cercare di costruire una relazionalità, seppur piccola o diversa da quello che ci si aspetterebbe.
Lo stile usato da Antonio Rinaldi è molto semplice, lineare e diretto. Egli riesce a parlare di un argomento tanto complesso in modo assolutamente accessibile e comprensibile, introducendo con cura ogni aspetto del discorso, di modo che la lettura risulti scorrevole e piacevole e che il lettore resti incuriosito e, allo stesso tempo, affascinato fino al termine di tutta la trattazione. Per questo, Leggere il silenzio è un libro per tutti coloro che fossero interessati a saperne di più sull’autismo e sugli approcci possibili per avvicinarsi a questo mondo tanto vario.
a cura della Dott.ssa Alice Fusella
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