Giovedì 19 febbraio Gabriella Stanchina ha presentato il suo ultimo libro "Nell'immensa città mia, la notte" - nella collana A Tu per Tu - Edizioni Psiconline, presso la Biblioteca Comunale di Trento.
Nella Sala degli Affreschi della Biblioteca di Trento, il pubblico è intervenuto numeroso, e ha seguito con molta attenzione e coinvolgimento l'ottima introduzione di Marcello Farina, docente di filosofia dell'Università di Trento e la presentazione.
Al termine abbiamo intervistato Gabriella Stanchina per far conoscere meglio il suo romanzo, che prende il titolo dal verso di una poesia di Marina Cvetaeva, poetessa geniale e sofferente che fino alla morte ha lottato contro la “belva acquattata nel folto” ed è ambientato in una clinica circondata dalla campagna.
In questo microcosmo raccolto intorno a un giardino, l’autrice, ricoverata per una grave forma di depressione, racconta in prima persona il percorso che dall’inferno della malattia la conduce verso l’inaspettata salvezza, restituendole una comprensione nuova del mistero della vita.
Quando ha deciso di scrivere Nell'immensa città mia, la notte?
Ci ho pensato per molti anni, ma il dolore era ancora troppo vivo nella memoria, non riuscivo a tradurlo in scrittura. Poi, finalmente, ho deciso di imprimere una svolta radicale alla mia vita, mi sono iscritta nuovamente all’università, e questa trasformazione mi ha dato quel respiro necessario perché quell’ombra che mi ero portata dentro per anni trovasse un linguaggio, si facesse parola.
Ci spieghi il significato del titolo.
“Nell’immensa città mia, la notte” è il primo verso di una poesia di Marina Cvetaeva, che nel libro riporto integralmente. Quando ho letto per la prima volta questa poesia, sono rimasta folgorata per la somiglianza tra le sue parole, così eteree e dolenti, e il mio vissuto. Cvetaeva era un genio sofferente, per tutta la vita è stata accompagnata dalla depressione, ma l’ha distillata in parole così struggenti e vere da dilatare il dolore individuale in una comprensione e compassione di tutto l’umano. Quel verso poi, richiamava il mio sogno di una città notturna, avveniristica e silenziosa, che scandisce il romanzo.
Che cosa ha rappresentato ripercorrere la storia della sua depressione, tutte le fasi fino alla guarigione?
Ha avuto un significato terapeutico. Mi ha permesso di distaccarmi dal dolore, quasi di tenerlo in mano e contemplarlo come una gemma oscura.
Di tracciare un intervallo di respiro e di parole tra me e quel ricordo che per troppo tempo era stato così fitto e intenso da sembrare indicibile. E di estrarne un senso che andava al di là della mia vicenda personale e poteva parlare ad altre persone, condividere e infondere speranza.
Come è riuscita a parlare del dolore?
Mi sono servita di immagini, di metafore che potessero tradurre il dolore in un’esperienza visiva concreta. Per esempio ho parlato della mia malattia come di una belva acquattata nel folto, mortale ma vibrante di una luce e di una vita che mi era inaccessibile. Avevo in mente la tigre della poesia di Blake, “il fulgore che avvampa nelle foreste della notte”. Questa immagine guida ha aiutato me stessa a comprendere il significato della mia esperienza di guarigione. La malattia non era un corpo estraneo da distruggere o estirpare, era intimamente parte di me, si nutriva dalla mia stessa fonte di vita, mi mostrava il mio volto in uno specchio oscuro.
Si trattava perciò, attraverso il percorso terapeutico, di costruire tra me e la depressione una parete di cristallo che mi permettesse di osservarla e interrogarla senza esserne divorata.
...E soprattutto anche del dolore vissuto da altri? Nel libro si intrecciano anche altre storie, altri personaggi a cui lei ha restituito voce e ha donato una nuova vita.
Sì, da quegli anni mi trascinavo dietro anche le storie di tante persone conosciute dentro la clinica e fuori, che mi avevano confidato e affidato le loro parole. Queste storie avevano in sé una bellezza e una potenza che spesso il mondo non riconosce, perché la depressione è una malattia che sfocia nel silenzio. Io non volevo che quella ricchezza andasse perduta.
Può considerarsi una storia di dolore ma anche di speranza?
Certamente, la storia si conclude con un ritorno alla luce, ed è disseminata di confini,di varchi, direi quasi di fessure nella crisalide che annunciano il dischiudersi del cielo. Ritornare alla vita significa recuperare la dimensione dell’umano, ricominciare con pazienza a prendersi cura del mondo, a coltivare la bellezza della terra. Ricordando che la malattia, nel suo grande pericolo, ci è stata madre, ci ha plasmati e costretti a rinascere.
Nel libro è interessante il parallelo tra la vita reale e quella del sogno, della città avveniristica che sembra però essere collegata alla realtà, intravedendo nella città notturna un'avvisaglia di guarigione, di voglia di affacciarsi nuovamente alla vita e viverla per quella che è.
Il sogno descritto nel libro ha realmente accompagnato le mie notti durante gli anni della depressione. Sprofondavo nel sonno e mi ritrovavo in questa città notturna e disabitata, di un silenzio angelico, camminavo tra i suoi grattacieli illuminati, respiravo la purezza sovrumana di questo luogo che non conosceva il male. Era una consolazione. Poi una notte, poco dopo la mia guarigione, ho sognato che in quella vastità minerale c’erano delle foglie,il presagio di un giardino segreto nel cuore della città. Indicandomi questo altrove, il sogno ha probabilmente esaurito la sua funzione, perché non è più ritornato.
A quale pubblico si rivolge?
Mi piacerebbe in particolare che questo libro potesse raggiungere chi soffre di questa malattia, e coloro che per professione o amore stanno loro vicini. Per aiutarli a penetrare nel mondo interiore di chi soffre, e che spesso appare chiuso e inaccessibile.
Quale messaggio vuole trasmettere attraverso il suo racconto?
Che c’è una luce al termine della notte, di ogni notte. E che, tuttavia, di quella notte siamo impastati, da essa dobbiamo imparare. Vorrei leggere un brano del mio libro che secondo me esprime sinteticamente il significato profondo del mio lavoro di scrittura: “Ci sono forze in noi più antiche dell’umano. Macchine per uccidere che devastano la nostra mente. Deserti che crescono e circondano la fragile cinta di mura che abbiamo eretto intorno al nostro giardino. Eppure, in un modo enigmatico e terribile, anche loro ci sono madri, anche da loro dobbiamo rinascere. E se qualcosa dell’umano è degno di resistere di fronte all’eterno, se c’è qualcosa che per un breve istante lo rende smisurato come le galassie, è questa capacità di chiamare madre ciò che lo distrugge e accettare di morire per rinascere ancora.
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