Perché ha deciso di scrivere Scegliere il cambiamento, quando ha preso questa decisione?
La psicologa presso la quale ero in terapia, mi faceva tenere un diario degli eventi, delle emozioni, delle riflessioni personali, delle scelte che m’invitava a fare, dei miei sogni: sia quelli a occhi aperti che quelli notturni. Io che amo scrivere, riempivo pagine e pagine del mio quadernino. Così un giorno le ho detto: “Io qui sto praticamente scrivendo un libro”. Lei mi ha risposto: “Perché no?”. Ricordo a memoria le parole con cui mi ha convinta da subito: “Se te la senti… Mi rendo conto che ti sto chiedendo tanto, ma sono sicura che potrai aiutare tante persone che hanno il tuo problema. C’è molta letteratura sulle dipendenze e in particolare sugli alcolisti, ma i loro familiari vivono nel silenzio e nella vergogna. Provaci”.
Ho cominciato a pensarci già in metropolitana mentre tornavo a casa.
Che cosa ha rappresentato per lei scrivere e poi pubblicare Scegliere il cambiamento? Scrivere questo libro ha contribuito al suo cambiamento?
Beh, ha sicuramente rappresentato la risposta all’invito che mi era stato appena fatto. L’ho accolto con gioia anche se con tanti timori. Avevo paura delle critiche, credevo di non farcela emotivamente e soprattutto non volevo parlar male di mio marito. L’ho detto a Teresa (la Dott.ssa Basilone) e lei mi ha risposto che ne sarebbe dovuta venir fuori la verità: la storia di due vittime della dipendenza. Ho preso la decisione di rivolgermi a una Casa Editrice solo a lavoro terminato: inizialmente pensavo a un’autopubblicazione. Quando Edizioni Psiconline mi ha scritto della valutazione positiva, non riuscivo a crederci. Ero felice di aver scritto un libro che era piaciuto.
Se ha contribuito al mio cambiamento? Questo non lo so distinguere perché mentre il mio diario diventava un libro, ero ancora in terapia. Di sicuro sapevo che non stavo scrivendo un libro per me stessa, perché per questo avevo già il mio diario. Scegliere di scrivere per un ipotetico lettore, però mi ha fatto chiarire e circoscrivere meglio quello che stava accadendo dentro di me. Questo ipotetico lettore è diventato il mio maestro. È stato lui a insegnarmi a farlo sorridere, anche se la storia sarebbe stata emotivamente molto forte. Gli ho chiesto di non giudicarmi e di condividere la sfrontatezza con cui stavo uscendo allo scoperto; gli ho chiesto di insegnarmi a ricostruire il cammino e di camminare al mio fianco perché il cammino non è meno importante della meta; gli ho chiesto di ricordarmi spesso che di questa meta, stavo costruendo un dono; che perciò dovevo accogliere la sofferenza che tante volte mi faceva interrompere il lavoro e anche per lunghi periodi.
Quando ha capito che era arrivato il momento di chiedere aiuto per sé e per suo marito?
Non l’ho capito. Io e mio marito avevamo costruito un forte senso del noi e anch’io ero convinta che ce l’avremmo fatta da soli perciò non ne parlavo con nessuno. Mi concentravo soltanto su quello che potevo fare per lui, convinta che salvandolo, mi sarei salvata anch’io. Con la terapia ho anche capito che mi mascheravo dietro il suo disagio per non riconoscere il mio. A volte, ma tardi, troppo tardi, ho cercato di convincerlo a curarsi. Lui non ne voleva sapere perché era sicuro che avrebbe smesso di bere solo insieme a me. Ero davvero disperata quando ho trovato il coraggio di parlarne in famiglia. Abbiamo deciso di rivolgerci a una struttura che lo curasse. Il primo momento in cui mio marito è stato accolto dallo staff medico che lo avrebbe avuto in terapia, mi sono sorpresa a capire che dovevo ritrovare la mia serenità e improvvisamente ho chiesto, anzi implorato un aiuto. Non so perché l’abbia fatto. In fondo non ero mai stata consapevole di aver bisogno di aiuto per me stessa.
Che cosa accade quando una persona vive accanto ad un familiare colpito dalla dipendenza, in questo caso dall’alcol?
Ho scritto nella prima parte del libro ciò che è accaduto a me. Naturalmente si tratta di un’esperienza personale, ma credo che nei miei comportamenti, siano presenti anche quelli di tante altre persone che si trovano a vivere la stessa realtà. Per dirne solo alcuni, provando a storicizzarli un po’: si sottovaluta per troppo tempo il problema, si è influenzati dal comportamento dell’altro, si sente il bisogno di salvarlo, si diventa complici, ci si vergogna, ci si isola dalla vita sociale, si controllano i suoi comportamenti, ci si sente inadeguati, ci si sente in colpa, ci si rassegna…
Che cosa crede di trovare nell’alcol una persona affetta da dipendenza?
Questo proprio non lo so. Anche questa è una ricerca molto personale. Si può eventualmente sostituire il “perché” con il “come”. Ma anche questo “come” è molto personale. Magari, come nella mia esperienza, si comincia solo per caso: un’occasione con gli amici, un bisogno di qualcosa di forte alla fine di un pasto, un’insonnia che ti porta a riempirti di nuovo il bicchiere. E senza accorgertene il livello della bottiglia si assottiglia. Finisce per diventare un’abitudine e poi un vizio. Alcune inevitabili difficoltà ad affrontare la vita diventano una ‘scusa’ per continuare. Ma tu hai sempre la convinzione che puoi smettere quando vuoi, che non sei come tanti altri che vedi vacillare per la strada o buttati su un marciapiede.
Perché si diventa co-dipendenti? Qual è il percorso che conduce alla co-dipendenza?
Solo attraverso il percorso terapeutico ho capito cosa mi è successo e perché. Ormai ero già co-dipendente. Ne parlo nella prima parte del libro in cui, attraverso la metafora dei lucchetti, elenco e descrivo i comportamenti che fanno diventare co-dipendenti. Uno per tutti: non capire di aver bisogno di aiuto, non sentirsi onnipotenti, accogliere i propri limiti, insomma.
Quale posto occupa il “senso di colpa” nella sindrome di co-dipendenza?
È inevitabile cominciare a chiedersi il “perché” sia successo, cercarne una causa. È una scelta che non arriva quasi mai a buon fine anche perché le cause possono essere diverse e non si riesce a trovarne una precisa ragione. Ci si fa questa domanda non solo nel tentativo di trovare una via d’uscita ma anche per assolvere in qualche modo l’alcolista, per giustificarlo insomma. E questo è già un aspetto della co-dipendenza. Non riuscendo a risalire alla causa, sempre nel tentativo di offrire giustificazioni, ci si colpevolizza: vuoi vedere che la colpa è mia? E qui si portano allo scoperto tutte le nostre personali fragilità: non sono capace, sono troppo debole, non so amarlo, non sono adeguata, non sono abbastanza intelligente, non gli offro una vita abbastanza significativa, non so capirlo, magari io con il mio comportamento l’ho indotto all’alcol.
È difficile accettare la realtà, come è possibile affrontare questa drammatica esperienza senza chiedere aiuto a specialisti? E senza farsi aiutare neanche dalle persona amiche, da familiari?
Proprio perché è difficile accettare la realtà. Chi sta vicino a un alcolista ci mette molto tempo a capire che si tratta di una malattia e che come tutte le malattie va curata. Questo tempo è fatale! Per quanto riguarda la mia esperienza, ero co-dipendente al punto che quando una sorella o un fratello di mio marito mi facevano notare che lui beveva troppo, io negavo e rispondevo che si trattava solo di un’occasione e che non c’era da preoccuparsi. Ma questo anche perché volevo essere fedele al segreto che mi aveva resa complice. Per tornare al senso di colpa, mi sono colpevolizzata anche di aver preso le sue difese.
Chi era Cecilia prima della terapia che l’ha aiutata a superare la co-dipendenza e chi è Cecilia oggi dopo un percorso terapeutico?
Io sono sempre la stessa Cecilia: non ho cambiato la mia identità. Tanto per fare qualche esempio sono la solita Cecilia ingenuotta che ha sempre l’amo ancorato alle labbra perché abbocco a tutto; sono sempre la solita Cecilia curiosa che legge tantissimo, direi anche troppo; sono sempre la solita Cecilia che, quando qualcosa la emoziona, deve per forza condividerla subito con gli amici con un’improvvisa e anche inopportuna telefonata; sono sempre la solita Cecilia perennemente indecisa e piena di contraddizioni. Però sono molto cambiata. Ho imparato a fare le scelte che mi fanno stare bene con me stessa, con gli altri e con il mondo. Ho imparato a riconoscere, comunicare e gestire le mie emozioni. Ho imparato ad accettarmi per come sono: così perfettamente imperfetta. Ho imparato a considerare che la vita va vissuta con consapevolezza , che devo affrontarla subito quando mi convoca a qualche problema da risolvere. Ho soprattutto imparato a non fuggire da me stessa e ad amarmi. Qui ho avuto tanti problemi. La mia formazione religiosa mi ha indotto a pensare sempre agli altri, a farli contenti, a non dire mai di no, a farmi tappetino di persone e situazioni e questo ha inciso molto sul sorgere della mia co-dipendenza. Ho imparato ad alzare la testa e le spalle. Ho imparato che solo amando me stessa posso regalarmi agli altri. Per stare bene con me stessa ho fatto scelte apparentemente egoistiche. Ho anche maturato un nuovo tipo di spiritualità che m’ insegna a capire che siamo tutti una cosa sola, che siamo interdipendenti e che mi ha fatto ritrovare l’entusiasmo per la vita. La primissima cosa che faccio adesso appena sveglia e prima di addormentarmi è quella di ringraziare per le piccole cose di ogni giorno. E sono sicura che i frutti di queste mie nuove gioie e di queste mie nuove esperienze, si espandano in qualche modo anche intorno a me.
Quali consigli darebbe a chi oggi sta vivendo una esperienza simile a quella che ha vissuto lei?
I consigli sono quelli che ho descritto nella seconda parte del libro in cui ho tracciato il mio percorso di guarigione attraverso la metafora delle chiavi che aprono i diversi lucchetti. Direi a questa persona: ‘Chiedi subito aiuto e distaccati emotivamente dal problema, guardalo da fuori. Solo chi è dipendente può decidere se guarire o no. Tu puoi aiutarlo a prendere questa decisione, ma non puoi fare altro’.
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